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Aprile 29, 2021

Serve una nuova legge per lo smart working? Opinioni a confronto

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Con il diffondersi della pandemia e l’inizio del lockdown, le aziende hanno avuto la possibilità di far lavorare i propri dipendenti a distanza senza accordo individuale tra le parti.

Ma il lavoro agile agevolato, così come lo stato d’emergenza attualmente prorogato fino a fine luglio, è destinato prima o poi a essere destituito, con le aziende che torneranno a operare sotto la Legge n. 81/2017.

In questi lunghi mesi tutti gli attori in campo – datori di lavoro, professionisti HR, politici, giuslavoristi, dipendenti ecc. – hanno imparato molto sul lavoro a distanza, anche se forse non abbastanza sul “vero” smart working.

La normativa italiana è invece rimasta ferma alla già citata legge del 2017.

È quindi normale chiedersi se sia necessario un suo aggiornamento o addirittura una nuova normativa, o se sia sufficiente lavorare sulla mentalità imprenditoriale.

In Spagna, per esempio, è stato pubblicato il Reale Decreto-Legge 28/2020 del 22 settembre 2020, che affronta una questione spinosa come il diritto alla disconnessione e conferma l’obbligo della registrazione dell’orario di lavoro, rafforzando per le aziende la necessità di ricorrere a sistemi di rilevazione presenze in cloud e mobile.

Ma è anche vero che prima di allora l’argomento era affrontato soltanto dall’articolo 13 dell’Estatuto de los Trabajadores, che lasciava irrisolti moltissimi aspetti e dubbi interpretativi.

Per approfondire la questione abbiamo coinvolto cinque esperti di Risorse Umane con prospettive diverse, chiedendo loro di rispondere a questa domanda: “C’è bisogno di una nuova normativa che regolamenti il lavoro agile e superi la Legge n. 81/2017? Se sì, quali dovrebbero essere i suoi cardini fondamentali?”

Ecco le loro risposte.


Federico Bianchi

Federico Bianchi, fondatore di Smartworking.srl

A mio parere non c’è bisogno di superare una legge che è stata appena sperimentata. Ci sono stati tavoli in questi mesi per valutare modifiche ed integrazioni, mai uno, invece, che riflettesse su come è stata utilizzata e sull’efficacia.

La legge 81/2017 è nata dall’esperienza di organizzazioni italiane che nel periodo 2012-2016 hanno avviato una sperimentazione di lavoro svincolato dai luoghi di lavoro. Dall’esito positivo di queste sperimentazioni è nata una legge che fornisce indicazioni e princìpi ma non vuole essere impositiva. È una legge “facile” perché non definisce troppi paletti ma anche “difficile” perché, per essere di valore, richiede ad ogni azienda di dare vita ad un nuovo patto tra lavoratore ed azienda nel quale costruire un nuovo modello di organizzazione del lavoro.

C’è tuttavia un fattore per cui faccio appello che venga introdotto, ovvero la possibilità di detassare le spese che il lavoratore sostiene per l’acquisto di dotazioni tecnologiche “personali”.

Un timido accenno c’è stato nel 2020 quando la quota del fringe benefit è stata raddoppiata ma nel 2021 è già tornata al livello standard di 258,23 euro.

Ora credo che i tempi siano maturi per introdurre nel TUIR all’articolo 51 una voce che permetta la detassazione per le spese sostenute dai lavoratori per il miglioramento dell’ergonomia e del benessere della propria postazione domiciliare di lavoro.

Questo approccio è perfettamente in linea con un’evoluzione del mondo del lavoro che, anche attraverso la legge sul lavoro agile, stimola un cambiamento verso la creazione di forza lavoro più autonoma nella gestione della propria prestazione lavorativa e quindi maggiormente consapevole delle proprie esigenze sia in termini tecnologici che di ergonomia.


Emma Pisati

Emma Pisati, Editor presso HEI – Human Experience Insight

Nell’ultimo anno lo svolgimento delle attività lavorative al di fuori del tradizionale ufficio ha raggiunto la sua massima estensione e diffusione, evidenziando i limiti di una normativa scritta in un momento in cui il lavoro agile veniva contemplato in una quota residuale di contratti di lavoro.

I disagi e le difficoltà causati da una simile inadeguatezza, uniti al carattere forzato di questa “sperimentazione di massa” – in cui la pratica si è espressa ben oltre i canoni definiti per legge – ci porta a sostenere che una nuova normativa per il lavoro agile dovrebbe prevedere:

  • una reale partecipazione dei lavoratori nella definizione degli accordi di lavoro agile, attraverso strumenti di engagement e partecipazione diretta;
  • la limitazione dei vincoli nell’adozione di una modalità di lavoro agile, come quelli che definiscono a monte del numero di ore o giorni di lavoro agile a disposizione del singolo lavoratore;
  • un supporto economico adeguato alla scelta di lavoro agile, includendo le spese ad esso connesse all’interno del welfare aziendale.

Emanuela Spernazzati

Emanuela Spernazzati, HR Manager e Career Coach

Vedo la Legge 81/2017 come un contenitore entro il quale le aziende hanno avuto ampio spazio di manovra. Purtroppo, lo stato di emergenza e la mancanza di esperienza in materia hanno portato a risultati differenti da realtà a realtà.

Abbiamo visto aziende dotarsi di contratti di secondo livello che tenevano conto delle esigenze di tutti ma anche datori di lavoro incrementare a dismisura i report o utilizzare in modo improprio gli strumenti di collaborazione per superare l’ansia da perdita di controllo sul loro personale.

Così mentre molti ora puntano sullo smart working come elemento di talent attraction, una ricerca di Glickon mostra che a Milano, dove il 40% dei dipendenti lavora da casa, uno smart worker su due soffre di attacchi d’ansia e il 59% dichiara di lavorare più ora di quanto non facesse in ufficio.

Le realtà italiane sono variegate e sarà difficile dare indicazioni precise recepibili a tutti, ma certamente mancano dei pezzi a questa legge. Penso ad esempio al diritto alla disconnessione ma anche al bisogno di garantire momenti di condivisione.

Ma il primo passo è creare una cultura della fiducia, della comunicazione, della delega e della responsabilizzazione. Un mindset che, in ottica sistemica, sia scelto e condiviso in modalità bottom-up e up-down, come si dice in Agile HR, quindi co-costruito dai collaboratori e dai manager.

Lo smart working, che anche secondo l’ultima analisi di Deloitte ha fatto tanto bene alla conciliazione dei tempi di vita privata e lavorativa, disgrega la vecchia idea di postazione lavorativa/mansione/orario e crea possibilità come il desk sharing, ma proprio per questo richiede una nuova modalità di gestione e coinvolgimento da parte dei manager e la capacità dei collaboratori di organizzarsi in maniera più autonoma.

Insomma, abbiamo trovato gli strumenti, abbiamo una legge che ci ha permesso di non fermarci, ora occorre capire il senso di questa nuova era del lavoro e creare una cultura che lo sostenga.


Barbara Sala

Barbara Sala, Marketing e Communication Manager presso Ambire

La legge del 2017 che regolamenta il lavoro agile è nata, in tempi non sospetti, con lo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: oggi, a più di un anno dall’inizio dello stato di emergenza legato alla pandemia, la gestione del lavoro agile è diventata un’esigenza ed ha evidenziato quanto ancora siamo distanti dal raggiungimento di un vero e proprio mindset Agile. Sono poche e generalmente di respiro internazionale, le organizzazioni che praticano il lavoro agile da tempo e che sono realmente pronte ad un nuovo approccio culturale congruo alla legislazione sullo smart working.

Un anno e oltre di lavoro da remoto, ha sottolineato infatti quanto fossimo impreparati ad accogliere una nuova modalità di lavorare, non solo per la mancanza di norme ben definite, ma anche per il limitato grado di digitalizzazione e per l’ancora radicato bisogno di controllo che vede il lavoro in presenza come unica forma di produttività.

La logica Agile è ben lontana dalla modalità odierna di gestione del lavoro, richiede un cambiamento, dapprima culturale, da estendere in tutta l’organizzazione e che veda le persone al centro di questo nuova modalità: diventa, a questo punto, strategico investire sullo sviluppo digitale dotandosi di strumenti che favoriscano l’introduzione di un modello agile e, al contempo, consentano alle persone di trovare un ottimale life-work balance.

Ad oggi la Legge n.81/2017 definisce un rapporto di lavoro che può basarsi su diverse forme di organizzazione e senza precisi vincoli di orario o di luogo, fondato sul possibile utilizzo di strumenti tecnologici idonei allo svolgimento dell’attività senza specificare ulteriori criteri di definizione del lavoro agile. Lo scenario di estrema libertà che lascia intendere la normativa è profondamente in contrasto con il panorama organizzativo evidenziato sin qui: è fondamentale, dunque, puntare su azioni concrete che possano rappresentare la giusta leva al fine di rendere realmente possibile la trasformazione delle organizzazioni in contesti agili, focalizzati sullo sviluppo del capitale umano e orientati ad una nuova competitività.

Nel momento in cui si passerà dal pensiero di fare Agile a quello di essere Agile, il nuovo mindset potrà realmente beneficiare di una regolamentazione puntuale e concreta.


Piero Vigutto

Piero Vigutto, Consulente di direzione per la gestione delle risorse umane

Personalmente credo che la 81/2017 sia una buona legge e non abbia necessità di essere rivista, almeno per il momento.

Credo, invece, che questo sia il momento di consolidare quanto è stato ottenuto, purtroppo, grazie ad una pandemia che nella tragedia ha accelerato tutti i processi di “smartizzazione” delle strutture private e pubbliche.

È vero anche che ci sono state parecchie resistenze al cambiamento, arrivate da quei manager che hanno da sempre giustificato la loro presenza in azienda attraverso azioni di controllo diretto.

Lo smart working ha evidenziato l’inutilità di questa pratica tayloristica mettendo al contempo in dubbio l’efficacia di quelle figure che utilizzavano i vecchi paradigmi di gestione delle persone basati sul comando e controllo.

Ad accorgersi di tutto questo sono state anche le direzioni aziendali, che hanno compreso come adattarsi al mutare delle condizioni lavorative convenga sia in termini di costi che di attrattività. Si pensi solo agli spazi necessari per ospitare le persone prima della pandemia e dopo, un divario incredibile per dimensioni e quindi per costi d’acquisto o mantenimento.

Per non parlare delle mense, delle macchine aziendali e di tutti quei costi accessori che sono oggi venuti a cessare e del migliore bilanciamento tra vita lavorativa e non lavorativa.

Se da un primo momento il lavoro a distanza ha messo in crisi la struttura manageriale deputata al controllo diretto è anche vero che il perdurare di questa modalità di lavoro ha abituato lentamente il dipendente a una libertà di fare e di agire da cui sarà difficile sganciarsi.

Ormai avvezze a questo sistema, le persone difficilmente accetteranno di lavorare per un’azienda che pretende la presenza continua.

Più che una rivisitazione della legge 81/2017, quindi, mi sembra indispensabile una riscrittura dei contratti collettivi e, nello specifico, del Codice Civile, che proprio riguardo allo smart working e nel prossimo futuro alle forme di contratto (es. gli smart contracts) risultano obsoleti ed inadeguati a rispondere alle sopraggiunte esigenze delle imprese e dei dipendenti.

Per concludere voglio chiarire ancora una volta come quello che abbiamo sperimentato fino ad oggi non sia smart working: credo che i conti veri siano ancora fare. Spero che il legislatore abbia una volta tanto l’accortezza di anticipare i tempi e farsi trovare preparato.




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