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Settembre 25, 2025

Job hopping: significato, cause e strategie HR per gestirlo

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Il concetto di carriera lineare, con decenni trascorsi nella stessa azienda, appartiene ormai al passato. Il mercato del lavoro di oggi è più dinamico: le competenze evolvono alla velocità della luce e la disponibilità di personale qualificato è spesso insufficiente.

In questo scenario si inserisce il fenomeno del job hopping: la scelta – o la necessità – di cambiare posto di lavoro con frequenza, spesso ogni uno o due anni.

Un comportamento che divide: da un lato viene visto come indice di scarsa fedeltà a un’azienda, dall’altro come segnale di curiosità, capacità di adattamento e ricerca di crescita professionale.

Ma cosa significa davvero job hopping, quali sono le sue cause e come dovrebbero reagire le aziende di fronte a candidati con carriere frammentate?


Indice dei contenuti



Cos’è il job hopping

L’espressione “job hopping” deriva dall’inglese “job”, lavoro, è “to hop”, saltare. Indica quindi la prassi di saltare frequentemente da un lavoro a un altro in un lasso di tempo breve, privilegiando la crescita professionale (sia in termini retributivi che di competenze e responsabilità) rispetto alla fedeltà a una azienda.

Il fenomeno nasce negli Stati Uniti, in un contesto caratterizzato da grande flessibilità e bassi tassi di disoccupazione, e si è diffuso a livello globale soprattutto tra le ultime generazioni di lavoratori, Millennials e Gen Z.

Il job hopping è stato inquadrato da alcune ricerche:

  • Una indagine di ResumeBuilder.com del 2023 ha rilevato come nei 5 anni precedenti circa il 50% dei lavoratori appartenenti alla Gen Z o ai Millennial abbia cambiato almeno una volta lavoro dopo meno di 2 anni e il 25% lo abbia fatto per due volte.
  • Un sondaggio di LinkedIn del 2023 ha svelato che il 60% dei millennial è aperto a nuove opportunità di lavoro entro due anni dal loro attuale impiego.
  • La durata media dell’impiego per i dipendenti di età compresa tra 25 e 34 anni è di circa 3,2 anni, rispetto ai 10,1 anni per quelli tra i 55 e i 64 anni (fonte: Bureau of Labor Statistics).


Le origini del job hopping

Secondo le ipotesi più accreditate, le origini del job hopping vanno ricercate nella risposta messa in atto dalle nuove generazioni di lavoratori di fronte a un mercato del lavoro molto diverso da quello vissuto dai loro padri, zii e nonni.

Tra i fattori che lo alimentano troviamo:

  • La carenza di lavoratori qualificati in alcuni settori che ha dato molto potere contrattuale ai dipendenti e la possibilità di “scegliere” in quale azienda lavorare.
  • Politiche di salary review insufficienti, con aumenti sporadici e spesso minimi (intorno al 2-3%), istantaneamente erosi dall’inflazione, mentre un cambio di azienda può valere un +10–20%.
  • Un mercato del lavoro sempre più skill based, in cui i lavoratori si misurano sulla base delle competenze sviluppate. Competenze che è più facile accrescere confrontandosi con realtà diverse.
  • La diffusione del lavoro da remoto e ibrido, che ha moltiplicato le opportunità di carriera a disposizione dei lavoratori.
  • L’ingresso nel mondo del lavoro della generazione Z, molto attenta alle opportunità di carriera, all’equilibrio vita-lavoro e ai valori aziendali e disposta a cambiare datore di lavoro per trovare contesti più affini alla propria natura.
  • La diffusione di una cultura della formazione continua, sul lavoro come nella vita privata.

Tutti questi elementi rendono spesso più conveniente cambiare azienda con regolarità che costruire l’intera carriera in un solo contesto.


Il profilo del job hopper

Ma che caratteristiche ha, quindi, un job hopper?

Come già detto, appartiene tipicamente alla generazione Z o a quella dei Millennial, anche se il fenomeno sta diventando sempre più trasversale.

Lavora in un settore con scarsa disponibilità di personale qualificato, abita in grandi città o poli geografici con una forte offerta di lavoro, è ambizioso e ha una buona propensione alla formazione e alla crescita continua.

La motivazione principale dietro il job hopping è la crescita retributiva, ma questo percorso viene intrapreso anche per altre ragioni:

  • La possibilità di affrontare sfide sempre nuove
  • Il desiderio di acquisire nuove competenze
  • L’espansione del proprio network professionale
  • La ricerca del migliore equilibrio tra lavoro e vita privata

Il job hopping non fa però per tutti: occorrono resilienza, resistenza allo stress e velocità di apprendimento.


Il job hopping in Italia

Rispetto ad altri mercati del lavoro, in Italia si è iniziato a parlare di job hopping soltanto in tempi piuttosto recenti.

Il nostro è infatti, storicamente, un mercato del lavoro statico, in cui i rapporti di lavoro tendono a durare numerosi anni e la mobilità è ridotta.

La ricerca più citata è stata condotta da ANPAL e fa riferimento a dati del biennio 2020-2021, nei quali oltre 2,8 milioni di lavoratori italiani hanno cambiato impiego almeno due volte, con un incremento del 20% rispetto agli anni precedenti.

Il fenomeno sembra comunque meno netto che in altri mercati del lavoro, come quello anglosassone, ed è principalmente legato al settore digitale e tecnologico e ad altre industry nelle quali la disponibilità di lavoratori specializzati è limitata, come la sanità.

Si inizia a parlare di job hopping anche nei comparti più tradizionali, dove però si considera breve anche un’esperienza di lavoro di tre anni in azienda, al contrario di quello che avviene nei paesi anglosassoni, dove questo limite è posto a 18-24 mesi.

Nonostante il fenomeno sembri limitato e settoriale ha però un certo risalto mediatico principalmente per tre motivi:

  • Perché rappresenta un elemento di rottura rispetto a un’economia e un mercato del lavoro tradizionalmente statico.
  • Perché il nostro tessuto economico è composto per lo più da piccole imprese, nelle quali ogni avvicendamento di personale ha un impatto sul business più forte rispetto a quanto accada nelle grandi aziende e nelle multinazionali.
  • Perché l’aumento degli stipendi in Italia rispetto a tutti gli altri paesi europei (e non solo) procede a passo di lumaca (se non di gambero: il potere d’acquisto dei lavoratori italiani nel 2025 è significativamente più basso rispetto al 2021, con un calo stimato intorno al 9%) e chi riesce ad andare controcorrente crea scalpore, se non invidia.


Vantaggi e svantaggi del job hopping

Ma quali sono i vantaggi e gli svantaggi del job hopping?

Per il lavoratore, i benefici più rilevanti sono i seguenti:

  • Un aumento più veloce e marcato della retribuzione. Ogni cambio di lavoro porta tipicamente una crescita media dello stipendio del 10-20%.
  • La rapida acquisizione di competenze ed esperienze lavorative. Confrontarsi con ruoli e mansioni diverse nel giro di pochi anni porta un lavoratore ad acquisire una gamma più ampia di conoscenze e capacità rispetto a quella che svilupperebbe restando nella stessa azienda.
  • L’ampliamento del proprio network di contatti professionali. Lavorando in più realtà un lavoratore ha l’opportunità di entrare in contatto con un numero maggiore di professionisti.
  • Maggiori probabilità di trovare una realtà che soddisfi ogni sua esigenza in ottica di flessibilità del lavoro, condivisione di valori ed equilibrio vita-lavoro.

Gli svantaggi maggiormente percepiti da un job hopper sono, invece:

  • Un aumento dello stress e della pressione dovuti alla ricerca costante di opportunità e alla necessità di inserirsi di continuo in nuove aziende.
  • Una scarsa specializzazione. Se da un lato si acquisiscono sempre nuove competenze, dall’altro è difficile svilupparle in profondità se non le si mettono in pratica per un periodo di tempo sufficiente.
  • Il rischio, a lungo andare, di essere penalizzato dai recruiter nei processi di selezione in quanto percepito come troppo inaffidabile.
  • Lo sviluppo un network sì esteso, ma composto prevalentemente da relazioni superficiali.
  • L’impossibilità di accedere ad alcuni vantaggi contrattuali che si attivano soltanto dopo alcuni anni. Nel contratto commercio, per esempio, i lavoratori iniziano a maturare ore di ROL in aggiunta alle ore di permesso per ex-festività dal terzo anno di lavoro nella stessa azienda.


Come gestire il job hopping in azienda

Perché le aziende sono così spaventate dal job hopping?

La risposta è semplice: perché questo fenomeno provoca un aumento del tasso di turnover, un valore che le aziende e gli uffici HR cercano sempre di mantenere sotto controllo.

Quando i dipendenti lasciano prematuramente un’azienda, infatti, si verifica:

  • Un aumento dei costi di ricerca e selezione per sostituire queste figure. Più alto il ruolo rimasto scoperto, più alta sarà la spesa.
  • Un incremento dei costi di formazione, necessari per sviluppare le competenze dei nuovi arrivati.
  • Una perdita del know how e delle competenze acquisite dal professionista in uscita.
  • Un impatto sul clima aziendale: a un alto turnover corrisponde tipicamente un engagement più basso.

La soluzione, però, non può essere quella di escludere dai processi di selezione qualunque candidato che mostri una traccia di job hopping nel suo CV, come suggerito in maniera avventata da alcuni imprenditori.

Questo pregiudizio, infatti, rischia di nuocere sulla carriera di tanti validi lavoratori e sulla capacità di un’azienda di scegliere la figura migliore per una posizione vacante.

Come emerso in precedenza, infatti, i job hopper sono spesso professionisti molto validi, con spiccate doti di flessibilità e problem solving e grandi capacità di adattamento.

Rinunciare ad approfondire la loro conoscenza in fase di colloquio soltanto perché hanno un percorso di carriera frammentato, senza conoscere le circostanze e le motivazioni che li hanno spinti a cambiare con frequenza, sarebbe un errore.


Come gestire il job hopping nel recruiting

In fase di screening delle candidature occorre mettere da parte eventuali pregiudizi sul job hopping e valutare i candidati sulla base delle competenze maturate, i titoli conseguiti e altri criteri oggettivi, consapevoli che si avrà modo di esplorare e comprendere meglio il percorso lavorativo del candidato in fase di colloquio.

Da questo punto di vista, un aiuto arriva dagli strumenti di screening degli ATS. Il CV matching effettuato dall’intelligenza artificiale di Altamira Recruiting, per esempio, restituisce una graduatoria di candidati che prende in considerazione soltanto le competenze e le esperienze lavorative, senza soffermarsi sulla loro lunghezza.

In fase di colloquio si potranno poi indagare le cause di ogni cambio lavorativo, che tipicamente appartengono a 3 tipologie:

  • Necessità. Quando il cambiamento è legato al naturale esaurimento di un contratto a tempo determinato, stage, progetto ecc.
  • Opportunità. Quando le dimissioni vengono date volontariamente per accettare un incarico che migliora il proprio status di lavoratore, che sia per stipendio, benefit, ruolo, ambiente, zona geografica, orari ecc.
  • Conflitto. Quando il cambio è connesso a difficoltà di ambientamento e dissidi con il proprio superiore, il datore di lavoro o i colleghi.

Tra tutte queste motivazioni soltanto l’ultima, se ricorrente, dovrebbe sollevare un campanello d’allarme e richiedere un supplemento d’indagine.


Come gestire il job hopping nella retention

Come già accennato, è raro che un candidato accetti un lavoro con la precisa intenzione di abbandonarlo in meno di due anni.

Ciò vuol dire che l’azienda ha tutte le possibilità per trattenerlo più a lungo, a patto che sia in grado di offrirgli validi motivi per rimanere.

Deve, insomma, creare un ambiente e un contesto positivo, con tante occasioni di crescita e forti valori.

Le iniziative da intraprendere per ottenere questo risultato sono tantissime. Ne citiamo alcune:

  • Creare un buon piano di onboarding, rendendo l’inserimento in azienda un’esperienza gradevole ed efficiente. L’onboarding ha ottimi effetti sulla retention – la prima impressione è infatti fondamentale nella percezione che un lavoratore ha della nuova azienda – e serve anche a rendere operative le persone nel minor tempo possibile, così che riescano a lasciare il segno in azienda anche in pochi anni.
  • Favorire il benessere del personale, sia dal punto di vista fisico e mentale che da quello economico. Un buon piano di welfare è oggi soltanto il punto di partenza.
  • Offrire percorsi di formazione personalizzati per ciascun dipendente che consentano di acquisire nuove competenze utili alla loro crescita professionale.
  • Disegnare percorsi di carriera e favorire la mobilità interna, grazie anche a un sistema di job posting dedicato ai dipendenti.
  • Stabilire politiche di salary review che prevedano aumenti di stipendio sostanziosi (almeno il 10%) e non semplici adeguamenti all’inflazione.
  • Introdurre KPI per monitorare il turnover. Per valutare l’efficacia di questa e altre iniziative è buona norma per le aziende monitorare la propria capacità di retention tramite alcuni KPI HR, come il tasso di turnover volontario o survey di employee Net Promoter Score.

Anche le aziende che riescono a creare un ambiente così stimolante non sono ovviamente esenti da turnover. Voler cambiare lavoro a distanza di anni è un’esigenza naturale nei lavoratori, soprattutto per i più giovani, ed è sempre più raro che un dipendente si fermi per più di 5-10 anni nello stesso posto.

L’importante è non perdere bravi colleghi soltanto perché si sono sentiti poco ascoltati, bloccati in un ruolo senza crescita e disconnessi dalla cultura aziendale.



Job hopping: tra realtà e mito

In questo articolo abbiamo cercato di esplorare il fenomeno del job hopping per come viene spesso raccontato da giornali e piattaforme social.

Ma i dati che descrivono questo fenomeno come recente e in forte crescita non sono poi così solidi.

Non sorprende, quindi, che esistano anche opinioni contrastanti sul tema, anch’esse fondate su studi e ricerche.

Una indagine di Randstad Italia, per esempio, ha notato come i job hopper nel nostro paese non sembrino essere cresciuti rispetto al passato.

Se nel 2021 i job hopper sono stati in totale più di 900mila, nel 2011 superavano infatti il milione, mentre nel 2015 erano circa 850mila. 

Un recente studio americano, invece, smentisce che questa prassi sia da ricondurre a nuove abitudini introdotte dalle ultime generazioni di lavoratori.

Stando ai risultati di questa ricerca del National Institute on Retirement Security il job hopping è un fenomeno che ha sempre riguardato i giovani, tanto negli anni Ottanta con i baby boomer quanto oggi con la generazione Z. I primi anni di carriera, infatti, sono il periodo in cui è normale che le esperienze siano più frequenti e frammentate, sia perché si è alla ricerca di uno stipendio soddisfacente, sia perché non si è ancora compresa la direzione che si vuole dare alla propria carriera.



Conclusioni

Il job hopping non è in sé positivo o negativo: è la risposta a un mercato che premia competenze e flessibilità. Tende ad aumentare in periodi caratterizzati da bassa disoccupazione e outlook positivi ed è solito calare durante fasi di crisi e recessioni.

Le aziende dovrebbero guardare oltre la durata delle esperienze, concentrandosi su contributi concreti, fit culturale e potenziale di crescita.

Se un professionista resterà a lungo, sarà segno che l’ambiente è attrattivo e stimolante; se resterà meno, avrà comunque portato in dote know-how e nuove prospettive.

Il job hopping, quindi, va compreso e gestito, non temuto: può diventare un’opportunità per innovare e rafforzare la competitività aziendale.



FAQ: domande frequenti sul Job Hopping

Il job hopping è sempre un problema?

No. È un comportamento che va interpretato. Se ha permesso di cogliere opportunità di sviluppo e crescita può rappresentare un valore aggiunto per il candidato. I rischi emergono quando i cambi sono troppo frequenti e legati a situazione di conflitto, senza portare alcun miglioramento professionale.

Quanto a lungo occorre restare in un’azienda perché sia considerato “accettabile”?

Dipende da settore e seniority. Nei contesti internazionali, 12-18 mesi sono considerati un ciclo sufficiente; in Italia si parla più spesso di 24-36 mesi. Oggi, però, contano soprattutto i risultati raggiunti e le competenze sviluppate.

Come si indaga il job hopping in un colloquio?

Facendosi raccontare obiettivi, lezioni apprese e motivazioni di uscita per ciascuna esperienza lavorativa.

In quali settori è più frequente il job hopping?

In quegli ambiti in cui esiste una forte domanda di professionisti qualificati e in cui le competenze evolvono rapidamente. Per esempio, IT, digitale, cybersecurity e sanità.

Cosa possono fare le aziende per ridurre il job hopping?

Investire nella costruzione di un piano di onboarding strutturato e di percorsi di carriera interni. Promuovere la formazione continua, tutelare il benessere organizzativo e stilare politiche retributive competitive.

I software HR possono aiutare ad affrontare il job hopping?

Sì, la tecnologia per l’HR aiuta a effettuare uno screening dei candidati più oggettivo e a rendere più efficiente il processo di onboarding. Inoltre, favorisce la retention, supportando i processi più importanti: formazione, mobilità interna, salary review, performance management ecc.




Crediti fotografici: ©Nuthawut/Adobe Stock.